“Caravan to Baghdad” di Karim Metref
A cura di Susanne Portmann
Aggiungere parole su “Caravan to Baghdad” di Karim Metref, finalista nella “sezione speciale” del premio Alizator 2007, dopo quelle scritte da Giuliana Sgrena, è arduo: “Attraverso queste immagini – foto e racconti – si scopre una realtà sconosciuta che si insinua dentro l’intimità della gente, non rivelata dai grandi media, ma molto più utile per capire la situazione in Iraq [… ]. Questo libro dunque va oltre la testimonianza [… ] quello che viene presentato è un popolo, quello iracheno, che ha perso lavoro e ricchezza, ma non dignità e orgoglio.”
Impossibile esprimere meglio il valore intimamente umano del libro di Karim Metref, che ci regala tratti di vita della gente di Baghdad: Fatma la nonna, Haidar il nipotino sulla bici, Haidar il ragazzo di strada e Saif che ha raccolto lui ed altri, Anouar che vende felafel e Anouar il giovane sceicco sciita, le mamme in fila per iscrivere i figli a un corso di computer (un sogno!), il maestro Giafar… e infine Bassem, lo scultore che, in mezzo a quello che rimane della biblioteca nazionale (sapientemente saccheggiata da esperti bibliofili), racconta come assieme ad altri giovani fa “la cosa più lontana dalla guerra”, cioè produrre arte, come già facevano sotto il regime per il quale il “linguaggio artistico moderno era cinese”.
Gente che ci è entrata nel cuore e che non avrebbe avuto modo di entrarvi se non fosse per questi racconti di Karim, dei suoi 6 mesi passati a Baghdad nel 2004 per curare il progetto di una scuola per bambini di strada e dei viaggi fatti in quei mesi: da Torino via Amman per arrivare a Baghdad, le esplorazioni nei quartieri della città, i due viaggi nel Kurdistan iracheno, di nuovo ad Amman, sul pullman via Falluja e quello del rientro, di nuovo via Amman, a casa. Viaggiando con Karim sentiamo tante voci, vediamo e apprendiamo mille cose e storie del paese, antiche e recenti: le stragi del popolo a nord e a sud, la vita nei campi profughi curdi, gli alberi che sono spariti, la divisione definitiva dell’Islam nelle correnti dei sunniti, sciiti e dei khawarig, la festività sciita dell’Asciurà vietata sotto Saddam, la “bellissima” costituzione irakena, la “fregatura” per chi ha comprato un cellulare nella Baghdad occupata…
Karim ha viaggiato tanto e non solo in Irak. Conosce l’arabo, la lingua che fa da tratto d’unione tra la gente dall’Algeria all’Iran, e il francese, l’inglese e l’italiano, pu? parlare con tutti, il che gli permette di fare nessi culturali privilegiati. Karim conosce e vive lo sguardo della gente, soprattutto lo sguardo dei bambini: a lui, come ai ragazzini appassionati, non sfugge mai la marca, il modello e il paese di fabbricazione di un automobile, di un camion, autobus, di una bici, di un carro armato o trattore; il che gli permette di fare dei nessi geo-politici ed economici, formidabili.
Nella prefazione dichiara, “Io non sono giornalista di professione”, e definisce “lettere” e “diario di viaggio” il suo concentrato di storie e di storia, di vite e vita, dolori e scoperte, sapori e colori. Ma, come molto bene ha scritto Giuliana Sgrena, è “un libro che va ben oltre la testimonianza”. E allora noi dobbiamo confessare il nostro difetto di comprensione rispetto alle bellissime parole di Giuliana Sgrena, non riuscendo ad afferrare in che cosa consiste esattamente questo “oltre” e non comprendendo bene come faccia un testo – composto da interviste, documenti, articoli e commenti – a diventare un “libro” di “immagini di racconti”, vale a dire un libro poetico, epico.
Ma forse a rileggere più attentamente… ecco, rileggiamo un capitolo che ci ha colpiti particolarmente: l’intervista al maestro – l’Ustad Giafar, nato nel 51, “…occhi chiari… di un colore difficile da definire, miele scuro con riflessi di verde… Parla ancora di onore e dignità in mezzo a una folla soggiogato dalla ricerca del guadagno facile…”. Ma è in coda all’intervista che scopriamo ci? che ci ha colpiti veramente, laddove Karim aggiunge: “Scoprendo che Ustad Giafar era un Baatista convinto e ammiratore di Saddam ma nello stesso tempo tutto il contrario di questo, mi sono ritrovato completamente disorientato, sprovvisto delle mie certezze… Eppure io un altro Ustad Giafar lo conosco da sempre… Poteva arricchirsi come hanno fatto tanti ma continua a vivere della sua magra paga di insegnante. Vive ancora oggi, … lontano da Baghdad, là sulle cime delle montagne Cabile… Saluto il maestro Giafar e penso con affetto a quell’altro maestro. Penso a quanto abbiamo litigato a casa per le nostre rispettive posizioni politiche e penso anche che, nonostante tutto, non ho mai smesso di amarlo né di essere fiero di essere suo figlio.”
Poter salutare cos? il proprio padre, richiede certamente un che di “oltre” in termini di qualità umane. Fatichiamo a ricordarci un racconto che ci abbia commossi al pari di questa “aggiunta” personale di Karim. Ma un ricordo viene, ed stranamente è il ricordo del racconto di un sogno, ascoltato molti anni fa: “C’era mio padre, morto in realtà. Veniva ad abbracciarmi e mi ha detto ti saluto, io vado via. E io l’ho abbracciato come non ricordo averlo abbracciato mai quando era vivo.”
Per poter salutare cos? il proprio padre – scrivendo o sognando – ci vuole forse la forza intatta e pulita del nostro affetto per i nostri padri da piccoli, tanto piccoli da non avere forse nemmeno parole e ricordi, ma che è l’unica forza che ci permette di riconoscere ai padri tutto il nobile che in loro c’era e di lasciarci alle spalle il nostro rancore per i loro fallimenti e contraddizioni; e prendere la strada, da soli liberi del fardello della confusione tra ci? che è loro e ci? che è nostro.
Karim fa parte della cerchia dei grandi viaggiatori, di quelli hanno lasciato e rinunciato a tutto per tenersi il solo bagaglio essenziale: il tappeto prezioso intessuto dalle mani frugolette con la lana coloratissima della luce del primo cielo e del suono della prima lingua. E’ nato sulle montagne Cabile in Algeria, la sua lingua madre è il berbero, lo tamazight, lingua degli Amazigh. Ha girato molto, srotolando il suo tappeto sotto altri cieli, per infittire l’intreccio di nuove luci e suoni di altre lingue. E’ passato per la cruna impossibile della guarigione dal mal-di-deserto per “medicina” amarissima dell’esilio. E ha guardato e ascoltato molto per poter raccontare come racconta. Che la scrittura di Karim sia pervasa dal lampo limpido degli occhi dei bambini, è indubbio. E’ questa sua qualità dello sguardo a svelarci come facciano i suoi racconti a diventare “immagini”, compiendo il salto magico dal raccontare il reale al racconto che è poetico – “l’oltre” che fa volare i tappeti.
Leggere “Caravan to Baghdad” a tre anni dalla sua stesura, ci sembra oggi importante più che mai. La guerra in Irak è l’unica cosa che è continuato e che continua, imperturbabile, radendo storia, ricordi e vite che possiamo solo sperare, qualcuno raccolga ancora in immagini di racconti.
Caravan to Baghdad. Karim Metref, Foto di Bruno Neri, Mangrovie – Traccediverse – Di Salvo Editore, Napoli, 2007. pp. 192. 15euro. ISBN 88-89862-27 -0