una recensione della rivista letteraria Arabesque -Trame di letteratura e cultura araba-. Edizioni Puntoacapo. Direttrice responsabile: Amal Bouchareb.
di Monica Buffagni
Sottili graffi istoriati nell’anima, spiragli di istanti dipinti di verde acqua come le onde dell’oceano, fiamme scarlatte dietro una grata chiusa e misteriosa, contorni di limiti ignoti. Ma anche l’oscillare barocco di monti scoscesi frustati da sciabole infiorettate di vento asperrimo, quasi una archeologia dei pensieri sciolta nel dolce ondeggiare dei ricordi , crema arricciolata di momenti. Simili sono le parole della poesia.
Arabeschi, appunto, gli stessi che troviamo anche nei versi d’autore, afferenti a voci diverse ma accomunati dalla stessa potenza espressiva, apparsi nel giugno scorso ,sul primo numero di “Arabesque”, collana e inserto semestrale dedicato alla letteratura, all’arte e alla cultura araba ,a cura di Amal Bouchareb, valente scrittrice –in uscita in questi giorni il suo ultimo libro-, studiosa , algerina di nascita e torinese di adozione, per Puntoacapo.
In attesa del secondo numero ,previsto per dicembre 2021, ci lasciamo avvolgere dalle atmosfere, sempre solidamente sostenute da rigorose ricerche storiche, letterarie e culturali, che vengono suggerite, istoriate di rimandi, suggestioni, riflessioni, venate di molteplici colori e stili: ciò è particolarmente vero per l’ampia parte che riguarda la poesia, elemento essenziale e spesso poco conosciuto di qualunque cultura, perno e snodo del percorso dell’umanità, in cerca di definizione della propria identità, del proprio essere più profondo, voce libera e autentica non solo dei moti dell’animo, ma anche e soprattutto della propria realtà, interiore ed esteriore, quasi un richiamo al vivere profondo -simile ad un blu notte acceso da lampi turchesi e inattesi- di ogni cultura.
Arabesque offre lo spunto per interrogarsi, dunque, sul rapporto tra poesia e cultura, un viaggio assorto e intenso sulle relazioni e gli intrecci che intercorrono tra storia, bellezza, parola, espressione del sé e della realtà, su come la poesia possa farsi voce narrante, possa raccontare, talvolta sottovoce, talvolta alzando quella stessa voce, la storia di una umanità condivisa ,ritrovata nel comune sentire. Quanto della bellezza e del valore della poesia è legata alla cultura, quanto della comprensione della poesia stessa è legata alla storia alle spalle? Allo stesso modo, possiamo sentire, prima ancora che capire, una poesia? Il confronto, la condivisione, il rapportarsi disponibile e aperto rimangono i punti focali di questo processo culturale, a cui questo corposo e ricco lavoro offre spunti di studio e di interesse.
Davvero avvincente il contributo di Youssef Wakkas, il noto scrittore e traduttore siriano, -che mentre sottolinea il suo non essere poeta dimostra una sensibilità assolutamente poetica che regala respiro e potenza alle sue ricerche sulla poesia araba antica, le sue “Lettere dal deserto”, sapientemente declinate tra gioco letterario e rigoroso apparato di studi sulla tradizione poetica araba-che a pag 28 compie un viaggio nel tempo e nella storia , tra i temi classici dei versi di poeti arabi dal periodo pre-islamico, quali l’amore, la bellezza ,qui incarnata in quella beduina dalle nere chiome tra l’incedere orgoglioso e l’arretrare ritroso, la figura femminile come centro della terra, una sorta di candida ancella della vita.
“Vorrei il cielo e le stelle/ e che fosse tiepida la notte/ gelidi gli occhi dell’alba./ Vidi le nuvole.. il tuo volto/ ma nessuno mi disse nulla.”
Cantano nel tempo, lontano e più che mai presente, cantano l’amore, il silenzio, la natura come espressione profonda e ancestrale degli elementi vitali, l’eterno anelito alla comunicazione assoluta e simbiotica, la tensione verso l’assoluto, che dell’amore -amore inteso come ricerca di una piena identità -è la nota dominante.
La potenza espressiva della parola poetica, che si fonde con il suono, la musicalità del suono, la violenza e maestosità della natura, parola che possiede e sottolinea, simile al fragore delle onde sulla riva, la ritroviamo anche negli sferzanti versi di Najwan Darwish -a p 70- che nel suo “Una sedia sul muro di Acri”, sciabola il suo vissuto tormentato, si interroga, non sfugge di fronte al sé più aspro, intonando inquieto il suo resistere e ritrovarsi, il suo essere uomo e poeta insieme, affrontando i lati oscuri della realtà, storica e personale.
“Nonostante le offese del fango/ sopruso dopo sopruso/ questo amore rifiuta di finire/ nonostante non abbia più seguaci.”
Sia l’amore per l’altro o l’amore per la propria terra tormentata e negata, come in questo caso, esso rinsalda il poeta in uno stretto legame, intimo e sofferto, tra sé e il suo oggetto d’amore, nella ricerca della parola come passione vitale e inesauribile che conferma e possiede tale legame.
“Chi sei? -ho chiesto alla mia anima./ Ma lei non ha prestato attenzione/ alle chiacchiere di un uomo mortale./”
L’eterno conflitto interiore tra le varie facce dell’esistere, del confronto/scontro con la realtà esterna, la fragilità dell’esistenza che si scontra con il violento erompere dell’esprimersi.
“L’eternità era la sua cella individuale./” conclude il poeta, cesellando con un solo colpo di pennello gli elementi fondanti della sua scrittura, e ,ancor più del suo percorso esistenziale, definendo il suo essere poeta e palestinese insieme.
Allo stesso tempo, scolpendo il tema dell’esule che si fonde in unione panica con la natura, dall’acqua agli alberi, da un tono sofferto e chiuso ad uno venato di speranza e consapevolezza, con il verso “Dov’è la mia frase circondata dai laghi?”, riporta e ci introduce -sulle ali di queste stesse parole che chi scrive va inanellando in questo preciso momento- alla riflessione sul ruolo centrale della lingua nella definizione del sé, della propria storia, sul silenzio, scelto o imposto, che ruggisce la sua forza trattenuta e si rivela forza dirompente di riscatto, fino a fondersi con le parole stesse, che della poesia si fanno carne, sangue, corpo e significato ultimo.
Lo stesso ruolo della donna, portatrice storica di parola e silenzio, appartiene profondamente alla ricerca sul potere e senso ultimo della lingua, come peraltro appare in “La boqala: donne e poesia” di Yolanda Guardi, a p.16. Centro di interesse sono, appunto, queste brevi composizioni poetiche in lingua araba algerina composte da donne, a partire dal XVI secolo alla contemporaneità, definite tali in condivisione con i recipienti di terracotta usati per una sorta di gioco divinatorio, un rituale codificato, che si svolge solitamente nei giorni di mercoledì , venerdì e domenica, tra forti aromi speziati e l’utilizzo simbolico del numero 7, con i relativi rimandi alla tradizione culturale. I temi sono quelli classici, della vita quotidiana, la bellezza, l’amore, l’incontro, la separazione e la lontananza, i momenti canonici e fondamentali del vivere, filtrati attraverso la sensibilità femminile, l’esperienza, il passaggio dei saperi, la condivisione dei connotati storici e interiori, in un rivelarsi della dimensione umana e di raccolta unitaria del passato legato al futuro. Centrale e sottilmente manifesto è qui il ripensare e reinventare il ruolo della donna in una società conservatrice, così come, in parallelo, l’evoluzione della lingua, il suo divenire fluente, intrecciato inestricabilmente allo snodarsi storico e culturale.
Attendiamo, dunque, con piacere il nuovo numero di Arabesque, auspicando insieme ad esso il superamento di alcuni stereotipi legati alla letteratura araba, in particolare alla poesia -non a caso , voce prediletta anche della scrivente-, e in attesa di colorare il suo titolo-manifesto di altre suggestioni.
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